Mi chiamavano Silenzio.
Aggrappata a dei raggi di luna intermittenti tra vento e tende, ho sognato che ero sulla tua spalla come se tu fossi pirata e io pappagallo, un torrente di striduli suoni alle porte del tuo orecchio. Quando mi svegliai ero di nuovo muta, avevo perso i colori esotici di ara macao, la mia pelle si mostrava come luce al neon attraverso calze a rete nere. Scoprii il torso dall’algida stoffa nera e indossai di nuovo l’arcobaleno di piume, nel tentativo di mantenere ancora per un po’ quell’aura onirica in una stanza in penombra. Continuavo ad essere muta e ti sentivo quando dicevi “non riesco a sentirti”. Nascondevo la frustrazione in vacui vaneggi.
In slanci surreali cominciasti a tagliare i miei occhi bovini e leccare il neon sulle gambe, inghiottivamo a turni luce fredda, fredda come le vendette migliori. Mi risvegliai di nuovo, di nuovo ero sulla tua spalla e con me tenevo solo il cielo e il desiderio d’eternità. Stavolta eri tu a parlare e io a non sentire, ero di nuovo Silenzio inespresso, bianco e nero.
In primavera mi risvegliai, circondata da iris saccenti, ero erbaccia come Alice. Ricordavo tutto nonostante il lungo letargo, gli anni investiti a sopire il caos. La luna era tramontata lasciando spazio a miriadi di stelle che tingevano d’azzurro il cielo, un tempo nero. Ancora tornavo a volte, impalpabile, sulla tua spalla, per sentire, per qualche secondo, com’era bello risvegliarsi dopo la notte e sentirti, nonostante fossi solo Silenzio.