Silenzio, può rimanere tale

Mi chiamavano Silenzio.

Aggrappata a dei raggi di luna intermittenti tra vento e tende,  ho sognato che ero sulla tua spalla come se tu fossi pirata e io pappagallo, un torrente di striduli suoni alle porte del tuo orecchio. Quando mi svegliai ero di nuovo muta, avevo perso i colori esotici di ara macao, la mia pelle si mostrava come luce al neon attraverso calze a rete nere. Scoprii il torso dall’algida stoffa nera e indossai di nuovo l’arcobaleno di piume, nel tentativo di mantenere ancora per un po’ quell’aura onirica in una stanza in penombra. Continuavo ad essere muta e ti sentivo quando dicevi “non riesco a sentirti”. Nascondevo la frustrazione in vacui vaneggi.

In slanci surreali cominciasti a tagliare i miei occhi bovini e leccare il neon sulle gambe, inghiottivamo a turni luce fredda, fredda come le vendette migliori. Mi risvegliai di nuovo, di nuovo ero sulla tua spalla e con me tenevo solo il cielo e il desiderio d’eternità. Stavolta eri tu a parlare e io a non sentire, ero di nuovo Silenzio inespresso, bianco e nero.

In primavera mi risvegliai, circondata da iris saccenti, ero erbaccia come Alice. Ricordavo tutto nonostante il lungo letargo, gli anni investiti a sopire il caos. La luna era tramontata lasciando spazio a miriadi di stelle che tingevano d’azzurro il cielo, un tempo nero. Ancora tornavo a volte, impalpabile, sulla tua spalla, per sentire, per qualche secondo, com’era bello risvegliarsi dopo la notte e sentirti, nonostante fossi solo Silenzio.

Breve analisi di una potenziale pletora di vomito

Melodiosi sbadigli mentre il festival della lambada sconvolge lo stomaco, mentre i polmoni ospitano aliti cosmopoliti, Pechino e Caracas grattano le pareti di una trachea che chiede pietà.

La nebbia tra le interiora copre gli applausi, come coltre rumorosa tra le gioie danzanti.

Archivi ordinati in una scatola morbida e inerme, tra terremoti e ragnatele.

Spuntavano arcobaleni per rischiarare le notti che bombardavano le pareti di lamenti, scrivevano le loro paure in pergamene pronte a frantumarsi al più lieve dei rintocchi.

Il pendolo proseguiva, arrestato talvolta da strette improvvise di tentacoli nervosi – rallentava – poi infuriato proseguiva, raccogliendo le briciole di una gloria insensata, finchè tutto non finiva.

Domani credo mi darò malata.

 

Presunti malocchi tra una vetreria dimessa e ceneri nel tè

Nonostante fosse ormai vecchio, quel palazzo in centro dall’ ascensore perennemente non funzionante era stato un bell’investimento. Certo, gli scalini erano alti, numerosi in ogni rampa, il terzo piano era lontano e impediva agevoli spostamenti alla mia nonna ottantenne e tabagista. Qualcuno doveva pur discendere tra le strade trafficate per evitare l’estinzione del vizio. Le versai il tè, ci scambiammo qualche parola, la mia scarsa conoscenza della lingua e la perduta loquacità di mia nonna impedivano comunicazioni lunghe, cosa che ho rimpianto per tutta la vita. Prima di scendere con i soldi per le sigarette ” già che ci sei prenditi anche una coca cola, fa caldo” (della coca cola potevo usufruire anche in occidente, era il doogh la rarità invernale di cui facevo scorta, come dell’acqua il cammello, durante le mie estati d’oriente). Avevo imparato ormai che prendendo una bella rincorsa e mantenendo il ritmo riuscivo a saltare l’intera rampa di scale, risparmiandomi quei gradini alti. L’avvertimento prima di uscire era “Attenta a non guardare il signor Lotfi, quello fa il malocchio!”. Il signor Lotfi era perennemente seduto su un muretto di fronte a una vetreria chiusa. Aveva i capelli bianchi e disordinati, era grasso e propeso in avanti, con le mani appoggiate sulle ginocchia, scrutando i passanti con i suoi occhi azzurri e acquosi, complice lo spalancamento continuo e la cataratta. Non ricordo avesse mai detto una parola. In effetti non ricordo d’averlo mai salutato. Il suo sguardo peró, in quanto proibito e forse cattivo, mi attraeva e mi ipnotizzava. Successivamente lessi a scuola il Cuore rivelatore di Edgar Allan Poe. Quell’occhio di vetro me l’avrebbe ricordato, il signor Lotfi, dalla camicia grigia e la grande pancia. Il signor Malocchio soleva vegetare sempre di fronte a quella vetreria. Che gli appartenesse? Non ho mai saputo se fosse un barbone o il proprietario di quella vetreria, se avesse dei nipoti o se fosse un uccellaccio del maugurio. Era sempre lì, quando scendevo per comprare le sigarette a nonna e sorseggiavo doogh – la mia ambrosia allo yoghurt – quando andavo a lezioni di santur, quando pattinavo nel parco ai piedi del Monte Roccioso. Forse mi piaceva guardarlo perchè in fondo speravo in un malocchio, che per me era “zia, ho mal di testa, mi hanno fatto il malocchio!”, essendo ancora più affascinata dall’ antica pratica zoroastriana della presunta rimozione del presunto malocchio.

Il crepuscolo recitava in blu e viola insieme alla voce del muezzin, tra le striature di rosso e le nuvole veloci come il tempo, mentre il signor Lotfi svaniva insieme alle sigarette e al tè, alla laconicità affettuosa nel terzo piano di un vecchio palazzo in centro, insieme ai doogh buoni davvero, svanivano per ultime le parole della sorella più piccola di mio padre, precedute da convenevoli divertiti ma in ogni caso sinceri  “fanculo gli occhi salati del signor Lotfi…”. Sfumava tutto in un arazzo vistoso nella sala del ricordo, immortalava in vivide tinte vivaci quello che era stato e mai più sarà.

I mangiatori di soufflè

La regina delle risaie si rifiniva i tratti del volto con polvere da sparo mentre inspirava l’odore umido delle baite e il romanticismo vittoriano. Ogni sera pettinava il cielo e i prati per portare frammenti pastello nei suoi dipinti di porcellana, preparava meravigliose sinfonie di curcuma e tuberi, univa l’estate della mentuccia secca al verso delle cicale nelle cipolle soffritte. Aspettavamo corrosi da quell’ansia puerile e selvaggia di guardare il cielo caderci addosso durante uno tsunami di vento. La donna delle risaie non tornava più. Non c’erano più le patate schiacciate dal colore del sole, del sole estivo di mezzogiorno con il calore del curcuma.
Una cortigiana con petali di begonia sulle guance e ragni tra le ciglia bruciava le spezie d’oriente, gratinava ed eliminava il freddo e inseriva il grasso di suini morti. Trangugió tutto ingollando vino stantio. La osservammo indifferenti gustando il nostro dolce succo d’uva pregiato.

Processionarie e plissè

Crollavano i castelli di carte affilate sparpagliando cervella e ricordi, le fragili relazioni costruite su fondamenta di panna montata, aspettavo a bocca aperta. Non volevo perdermi nessun brandello di destino, seppur nefasto, le scadenze erano arrivate. Ho dovuto resuscitare le lettere che non ho spedito, i regali con fiocchi di polvere che non ho più dato. Era tempo di andare ma cadeva tutto e queste carte affilate mi squarciavano. Finche non sono totalmente aperta.
Ora sono in alto ed è tempo di processionarie, sto per cadere e vorrei essere pinolo ma sono un verme che vive tra le nuvole. Ho le calze bianche e le scarpe di vernice nera, una gonna corta e sono armata di pietre appuntite, per aprirmi e scoprirmi verde, nel disgusto e nella morbosa curiosità. La maestra mi chiama ma io sono a pezzi, questi sassi fanno davvero male, chissà se faró in tempo a portarti i miei simboli d’amore e accidia, oggi è anche sciopero ma queste carte non smettono di cadere. Non ho più la testa e piano piano si staccano le braccia, trascino con quel che resta i miei oggetti raffinati, chissà se stavolta faró in tempo, e se piaceranno. Questo castello era davvero enorme, ho ancora le sue macerie addosso.

Il deserto al buio finalmente, da processionaria a cobra il passo è breve, sputo veleno ricordando spesso la malinconia dei sassi nella pancia, come quando adesso amo la primavera e la mattina, ricordo ancora di quando la vita era filtrata da una coltre di lacrime nella speranza della finititudine di questo gusto malvagio, nella sicurezza dell’inverno e della notte. Voglio di nuovo la luce e il calore ma è colpa del mio veleno, che ha bisogno di sole. Non dimenticherò quei giorni inutili che passavano vacui. Ora sono aria e le carte mi attraversano, sono spariti i miei pensieri e i ricordi sono a brandelli, presto verranno divorati dagli insetti e io sarò libera, ma tu continua a ricordarmi nello sguardo dei passanti.

(La fase animali striscianti e dimore medievali non finisce qui.)

Mentre Morrissey canta Girl Afraid

Com’è andata la tua giornata? Cosa hai fatto oggi dopo il lavoro? Io ho appena finito e sono distrutta, mi fanno male le gambe, strizzavo gli occhi di fronte al computer, sembrava avessi un tic nervoso. Ti capita mai, di sentire le orbite strette e la testa fluttuante, i movimenti ritardati e il mondo esterno totalmente inesistente? Forse si dice rincoglionita, o fulminata, o fuori di melone che dir si voglia. Oggi mentre sfregavo le patatine fritte sull’afta che mi è spuntata sul labbro, per una parvenza di disinfezione, non facevo che pensare a quando andavamo insieme a mangiare schifezze e tu finivi il tuo panino in mezzo secondo e mentre io masticavo lentamente mi parlavi e io ti ascoltavo, ti ascoltavo attentamente. Oggi vicino a me c’erano due tipi che ciarlavano fitto ma io non avevo occhi che per il cellulare e orecchie che per i miei ricordi, quando ho alzato lo sguardo ho notato che uno dei due mi fissava. Non avrei voluto accorgermene, non avrei voluto esistere per nessuno durante la mia distrazione agrodolce, ma tanto quel panino era disgustoso e lo potevo anche lasciare a metà.

Sulla necessità di fuggire la realtà

Invidio chiunque riesca a trovare l’espressione artistica liberatoria, analgesica. Riuscivo ad usufruire di questo palliativo, in un’altra epoca, forse più inconsapevole ed agrodolce. Nell’età dell’amarezza, scrivere è soltanto incidere ancor più profondamente i sentimenti, rendere più accoglienti i solchi del dolore, per un cavernicolo disagio, rassegnato, tuttavia a tratti acuto nella ricerca di una diramazione sorridente.

Operai in frac

Il cigolio del perpetuo ruotare di questo nastro sporco, come la brezza di Fiumicino striata di smog, i tonfi dei bagagli lanciati pigramente lungo lo scivolo di un parco giochi della materia non pensante, così mi svegliavo lentamente, minuto dopo minuto, in una giornata ordinaria. I lamenti delle veterane dalla voce stridula erano solo un neutro sottofondo di routine  a questa sinfonia di tecnica e braccia stanche, sudore direttamente dalla pista ai nastri, di fronte agli occhi stanchi degli impiegati.

Brusco ritorno all’aspetto più tristemente pragmatico del lavoro, il tipico passeggero iracondo per antonomasia, tendenzialmente con l’accento brianzolo. “Signorina ma non è possibile, la guardi! Guardi come mi è arrivata lei  [indicando la valigia; interessante la personificazione di un bagaglio]  Guardi la ruota, guardi!”  Una ruota leggermente sbilenca faceva capolino dal fondo. “Signore, purtroppo i danni a ruote, cerniere e manici non vengono rimborsati.”  “Ma com’è possibile?! Ma poi come cazzo le lanciano queste valigie?! VI DOVETE VERGOGNARE, DOVEVATE FALLIRE!”

Vano ogni tentativo di informarlo che è una regola vigente per tutte le compagnie, anche quelle a cinque stelle (che tra l’altro aprono denunce di danneggiamento solo in caso di implosione del bagaglio, ma loro non si devono “vergognare”, sparare sulla croce rossa è sempre più facile). Inutile spiegare che la compagnia già aveva vissuto il fallimento. Ancor più controproducente cercare di far capire che i bagagli non vengono movimentati in strutture protette da materassi e che non è certo colpa degli operai in pista se si è ritrovato la sua compagna di viaggio con un piccolo danno all’arto.

“Lo segnalerò questo, LO SEGNALERò A CHI DI DOVERE!”.  D’accordo signore, grazie alla sua segnalazione, faranno di tutto per imporre i guanti di seta agli operai in pista.

Amaro 8 marzo

Ci sono le donne a cui dedicare canzoni. Belle, magre, argute, simpatiche, fragili, propense a un copioso lagrimare che le rende ancora più dolci e piacevoli. Chapeau, tanti auguri.

Oggi vorrei ricordarne altre, dimenticate e poco cantate, rischiando di tuffarmi nel calderone della banalità. Tuttavia non intendo soffermarmi sulle donne infibulate, le donne con i raggi del sole perpendicolari sul burqa, le donne violentate. Non mi sento di in grado di esprimere in maniera efficace e poco emotiva il disgusto.

Mi limiterò al mio microcosmo, al nostro microcosmo occidentale, relativamente benestante, in crisi, con alle spalle tante conquiste. Auguri alle donne che non riescono a sentirsi donne. Alle donne dalla voce arrochita per le troppe sigarette fumate aspettando l’autobus al freddo, per tornare a casa e preparare un pasto semidecente a un uomo che è un estraneo, a dei figli che vivono in un altro universo. Alle donne che quando si spogliano vedono la pancia striata di smagliature. Alle donne che cercano di nascondere la ricrescita con vari stratagemmi perchè non hanno tempo e soldi per andare dal parrucchiere (e si sentono donne solo quando vanno dal parrucchiere). Alle donne con i denti troppo marci per poter ricevere baci. Alle donne inacidite dalla vita. Alle donne che non hanno spirito, che si lamentano con il destino, che non vedono via di scampo che piangono e digrignano i denti, senza farsi vedere. Alle donne così grasse che faticano a muoversi, che continuano a mangiare. Alle donne così magre e ossute che faticano a muoversi, che continuano e rifiuare il cibo. Alle donne che non sanno cosa significhi essere amate, o che l’hanno dimenticato. Alle donne che non hanno studiato, che non leggono libri, che non comprano riviste, che non guardano la tv e non vanno al cinema. Alle donne che si nascondono dietro abiti sformati e chili di fondotinta scadente. Alle donne con le ossa grandi e i lineamenti marcati che devono sempre sentire di stereotipi sulla donna leggiadra, delicata e minuta. Alle donne butterate e con gli occhi storti. Alle donne che vorrebbero andare in palestra, vorrebbero diventare belle, per loro stesse, ma anche per essere apprezzate. Alle donne che hanno visto la loro antica freschezza diluirsi nei detersivi. Alle donne che sognano guardando le commedie romantiche americane. Alle donne che sognano esame dopo esame. Alle donne che hanno smesso di sognare.

A tutte le donne che proseguono con lo sguardo vispo e a tratti vitreo, che accettano gli auguri con un sorriso perplesso, consapevoli di quanto sia ridicolo vedersi dedicare un giorno, dimenticate il giorno dopo.